STORIE Dì UN FOLLETTO
L’identità che assumiamo in noi,non sempre, nella realtà della vita, è ciò che dimostriamo di essere.
Tanti anni fa viveva in una terra lontana, un piccolo folletto, di nome, Gigetto, era un buono ma!
Agli occhi della gente dimostrava di avere conoscenze importanti, le sue parole erano semplici e persuasive, riusciva, con i suoi trucchi, ad incantare e a far credere a chi lo attorniava quello che voleva, ma sempre nel giusto, era fondamentalmente un piccolo corpo pieno di bontà. Fra tutti i pregi che possedeva aveva anche quello di comprendere il linguaggio degli animali con i quali, a volte, intratteneva lunghi discorsi. Non era molto alto e non era neanche molto bello, aveva una età imprecisata e sulla testa portava un cappello, di colore verde, dove, sulla punta, vi stava sempre appollaiato un piccolo uccello. L’uccello era di una specie sconosciuta, nessuno sapeva di che razza fosse o da dove venisse. Cippiricià, fu il nome che gli diede il folletto e probabilmente era un maschio.
I colori delle sue piume erano scintillanti e racchiudevano i 7 colori che compongono l’arcobaleno: il violetto, l’indaco, il blu, il verde, il giallo, l’arancione ed il rosso, e, dal gran che brillavano, Cippiricià, era distinguibile persino nelle le ore notturne, anche quelle più tenebrose; sembrava addirittura che il folletto avesse un catarifrangente sopra la testa, quando camminava, che ne indicasse continuamente il passaggio. A Gigetto piaceva viaggiare in lungo ed in largo per le strade della Terra, ed era un maestro, nel trasmettere alle persone che incontrava, le sue storielle.
Un giorno Gigetto , arrivò nelle vicinanze di un piccolo villaggio che era immerso in un fitto bosco pieno di alberi che, data l’altezza che avevano, davano l’impressione, con le loro lunghe cime, di sfiorare l’azzurro del cielo più alto. Man mano che si avvicinava, Gigetto ,vide spuntare, tra i lunghi rami ricchi di foglie, un castello enorme, con una alta torre che sovrastava il paesaggio circostante.
Era da diverso tempo che era in viaggio, il cammino intrapreso precedentemente era stato lungo ed impegnativo, aveva percorso molti chilometri e questo lo aveva stancato, aveva la necessità di riposare per ritemprare il suo esile corpo.
Arrivato sulla soglia della porta del villaggio, gli si fece di fronte un soldato armato fino ai denti che, con fare brusco e fermo, gli impose di arrestarsi. Gigetto alla vista di questo guerriero, che indossava una armatura in ferro con tanto di elmo, non fece una piega e continuò il suo percorso verso l’ingresso del villaggio, anzi, fra i denti, cominciò a canticchiare una canzone deridendo il soldato per ciò che gli aveva imposto. Il soldato udendo ciò ,e vedendo che le sue parole non erano state ascoltate, con impeto, tirò fuori dalla guaina la propria spada, e la puntò sul petto di Gigetto intimandogli nuovamente di fermarsi.
Gigetto era stanco e non aveva nessuna voglia di mettersi a litigare con costui e con impazienza disse: “Caro amico mio, non vedi quanto sono piccolo ed indifeso? Non credi che nella mia minutezza io non abbia la necessità di entrare nel villaggio per riposare le mie stanche membra? Cippiricià , che stava dormendo, apri improvvisamente gli occhi, osservò il soldato, e aggiunse: Caro amico mio non vedi che il mio padrone è stanco ed ha bisogno di riposare? Il soldato udendo l’uccello parlare, fece un sobbalzo all’indietro, sorpreso di ciò che le sue orecchie avevano sentito. Mai aveva udito parlare prima di allora un volatile, e questo lo rese, sul momento, titubante ed impaurito. Gigetto continuò: “Se tu non vuoi che io entri in questo villaggio dammi almeno una spiegazione cosicché io possa decidere se proseguire o fermarmi” Il soldato, ripresosi velocemente dal momento di indecisione avuto poco prima, puntò di nuovo la punta della spada sul torace di Gigetto e fermamente affermò: “nessuno può entrare in questo villaggio senza che la padrona del castello non ne conceda il permesso!” Gigetto sbuffò indispettito dalla risposta del soldato; non aveva ricevuto la giusta spiegazione e decise di sedersi davanti a lui. Il soldato a quel punto non sapeva più cosa fare, gli ordini che aveva ricevuto erano chiari, chiunque volesse entrare in quel villaggio doveva averne il permesso, altrimenti doveva essere passato per le armi. Lui però non se la sentiva di arrestare quel piccolo essere con quell’uccello parlante in testa. L’immagine che i suoi occhi vedevano non era quella di pericolo, anzi si sentiva estremamente leggero e felice, accanto a loro.
Ma però doveva prendere una decisione, altrimenti avrebbe subito una dura e severa punizione.
Mentre era lì, pensieroso sul da farsi, si accorse che da dietro stava per arrivare un altro soldato, il quale, avendo sentito delle voci poco distanti da lui, si era incuriosito di ciò che stava avvenendo. Quando questi arrivò, il primo soldato si fece coraggio e di nuovo impose a Gigetto, con tono severo e minaccioso, di andarsene altrimenti lo avrebbe arrestato. Il sole stava per scendere dietro le colline, il tramonto regalava alla terra, con i suoi meravigliosi colori, gli ultimi raggi di luce.
Il colore che questi emettevano era splendente, erano color fuoco, e incuranti di ciò che la natura concedeva agli abitanti della Terra, infiltrandosi fra i folti rami che attorniavano il villaggio, colpirono i due corpi di dì Gigetto e di Cippiricià, rendendoli, per brevi istanti, brillanti e scintillanti come succede alla luna in piena estate.
Il bagliore che i due rifletterono fu talmente forte che i due soldati dovettero chiudere gli occhi, per evitare di rimanere accecati da tanta luce. Appena Gigetto si accorse che questi rimasero abbagliati dalla luce riflessa, iniziò immediatamente a correre a più non posso, verso una casa che si scorgeva lungo la strada principale del villaggio.
Passarono pochi secondi da ciò, e quando i due soldati riaprirono gli occhi e non li videro più, pensarono che quel piccolo essere, con quell’uccello sul cappello, fosse andato via, intimorito dalle minacce subite. Il primo soldato, ancora scosso, raccontò dell’episodio avuto con quell’uccello e disse all’altro che questi parlava.
Costui non credeva alle parole dette dal compare e gli ordinò di tornare, seduta stante, al proprio posto di guardia. Il primo soldato così fece ma dentro alla sua testa un pensiero continuava a tormentarlo, non si convinceva di quel che aveva udito ed inoltre non riusciva a capire come mai, anche se solo per brevi attimi, guardando quell’uccello, si fosse sentito improvvisamente sereno e felice.
Questo pensiero rimase fermo nella sua mente, anche quando tornò di nuovo nella sua postazione di guardiano del villaggio. Nel frattempo i nostri due amici, Gigetto e Cippiricià, di soppiatto, si nascosero dentro a quella casa vista in lontananza. Gigetto, appena entrato, si accorse che questa non era altro che una stalla.
Avvertì subito un caldo tepore, e c’era, vicino ad un banco in legno, una stesa di paglia molto invitante per riposarsi e rifocillarsi, la notte stava per prendere il sopravvento sul giorno e il sonno stava per impossessarsi di loro, si diresse quindi lentamente verso il banco, per appoggiare il suo piccolo corpo sulla morbida paglia e gustarsi, infine, il meritato riposo. Stava per addormentarsi, quando, dalla parte opposta della stalla si levò una voce lamentosa ed esile che domandò:“salve stranieri cosa fate nella mia stalla?” Gigetto, si rizzò istantaneamente in piedi, credendo, che in quel luogo, vi fosse qualche altro soldato pronto ad arrestarlo o ad ucciderlo.
Si strofinò profondamente gli occhi per cercare di vedere meglio, il buio era padrone di quell’ambiente e non si vedeva molto, doveva mettere a fuoco la vista per capire chi o cosa avesse parlato, e quando i suoi occhi si adattarono alla poca luce, vide, che nella parte più oscura e lontana della stalla, c’era un grosso animale.
Non era altro che un cavallo ritto sulle proprie zampe, ed immediatamente tirò un profondo sospiro di sollievo e si tranquillizzò, pensando di essere scampato ad un imminente pericolo. Si avvicinò con passo lento verso il cavallo dicendo: “salve io sono Gigetto il folletto, vengo da molto lontano, e tu chi sei?” Il cavallo rispose: “io abito in questo posto da molto tempo ed è da molto tempo che sono fermo in questo recinto, nessuno, da quando il mio padrone è morto, mi ha più portato a correre nei verdi prati.” ”ma in che razza di posto sono capitato, non c’è rispetto in questo
villaggio?” chiese Gigetto con tono indispettito. Il cavallo rispose:”un tempo lontano qui regnava la felicità, la gioia, la serenità, ma da quando è arrivata la nuova padrona del villaggio, tutto è cambiato, la malvagità ha preso il dominio su tutto Gigetto, rimase chiuso nei suoi pensieri, mentre Cippiricià, nel contempo, si svegliò, ed aprì gli occhi. Cippiricià, vedendo davanti a se, in penombra, una figura enorme, si rizzò sulle piccole zampe ed emise un verso. Poi, resosi conto che si trattava di un umile cavallo, tornò ad appollaiarsi sulla punta del cappello e gli domandò:”salve amico vedo nei tuoi occhi tanta tristezza, cos’è che ti fa sentire in questo stato?”. Gigetto raccontò a Cippiricià di quello che prima il cavallo gli aveva raccontato, e Cippiricià, indispettito da quelle parole, volò vicino al muso del cavallo e con un semplice gesto di ali ruppe la corda che lo teneva legato ad un anello di ferro, piantato nel muro, e poi tornò sul cappello. Il cavallo fece un nitrito di gioia, finalmente poteva muoversi, anche se, solo dentro a quel piccolo recinto. Gigetto poi chiese al cavallo: “chi è che ti nutre?” e il cavallo rispose: “viene tutti i giorni un piccolo bambino che, di nascosto da tutti, mi porta della paglia che prende dalla stalla del suo padrone” Cippiricià fece un salto e scese dal cappello di Gigetto, si avvicinò saltellando al cavallo e con un balzo gli si appoggiò sulla testa, fra le due orecchie. Rimase lì, fermo e zitto per un po’ di tempo, poi disse al cavallo:” caro amico mio le leggi di questo villaggio non sono le leggi della natura,io la rappresento, e ricorda che ogni cosa viva a diritto ad essere considerata come tale” poi, con un leggero volo, ritornò sulla punta del cappello di Gigetto, chiuse gli occhi e si addormentò. Gigetto dal canto suo tornò sulla stesa di paglia rimandando all’indomani la continuazione del colloquio col cavallo, era troppo stanco ed aveva bisogno di riposo, si sdraiò e si addormentò. La notte trascorse tranquilla. Il cavallo girò talmente tanto su se stesso, data la piccolezza del recinto, che al mattino si era formato un profondo solco sul terreno; Gigetto sognò mondi più felici; Cippiricia, durante il sonno, non fece altro che piangere.
Arrivò la mattina, il caldo tepore dei raggi solari penetrava liberamente dalle finestre della stalla, e la sua luce, iniziò a percorrere il suo cammino.
Il cavallo, appena si iniziò a distinguere l’interno della stalla, fece un nitrito, e a quel rumore, i nostri amici si svegliarono.
Lo stomaco di Gigetto era in subbuglio aveva fame e sete, era dal giorno prima che non toccava né cibo né acqua. Cippiricià invece non aveva né l’uno né l’altro, mangiava e si abbeverava raramente; lo faceva solo quando gli era necessario. Gigetto, con sufficienza, chiese al cavallo: “c’è in questo orrido villaggio qualcuno che può vendermi del pane?”. Il cavallo lo guardò e sorridendo rispose:”ovvio che c’è,ma come farai ad andare a comprarlo ? sei entrato di nascosto nel villaggio. Gigetto rimase silenzioso per qualche secondo, poi, accennando un piccolo sorriso, disse: “dimmi dove lo posso trovare e vedrai che tornerò con il cibo necessario per rifocillarmi”. Il cavallo, gli raccontò che un poco più avanti vi era la casa di una donna che cuoceva del cibo, e gli indicò la strada più breve per arrivarci. Gigetto si tolse dalla testa il cappello, con Cippiricià ancora appollaiato sopra, e si incamminò canticchiando allegramente verso l’uscita della stalla.
Mise la testa fuori dalla porta, sbirciando sia destra che a sinistra, controllando che la via fosse sgombra e libera, quindi, non vedendo anima viva, si diresse di corsa verso il luogo indicatogli dal cavallo.
Data la sua statura, gli riusciva facile nascondersi fra le case del villaggio, e, tra una corsa e l’altra, arrivò in breve tempo alla meta che gli avrebbe concesso il companatico per sfamarsi. Mano a mano che si avvicinava alla casa, si percepiva nell’aria un intenso odore di pane appena cotto, e il suo stomaco, già digiuno da tempo, scalciava sempre più, facendo sentire il suo brontolio. La porta non era chiusa ma vi era, sulla soglia, una tenda gialla che impediva alla luce di entrare nella stanza.
Il calore che procurava il forno era già di per se molto alto e, se fosse entrato anche il calore prodotto dal sole, l’aria sarebbe diventata talmente calda da togliere il respiro. Gigetto lentamente spostò la tenda e vedendo che non c’era nessuno all’interno, con un salto entrò, facendo scivolare la tenda dietro di se.
Chiamò a voce alta ma nessuno rispose. Aveva fretta, il timore che potesse sopraggiungere qualche soldato lo innervosiva.
Aspettò qualche secondo poi quando vide che nessuno compariva, decise di prendere comunque qualche pezzo di pane, aveva troppa fame.
Mentre stava per oltrepassare il vuoto, che delimitava il banco, improvvisamente da dietro ad una porta uscì una donna che alla vista di questo piccolo essere, rimase immobile e silenziosa.
Gigetto se ne accorse ed estrasse, con furbizia, dalla sacca che aveva con sé, un piccolo sacchetto che fece scuotere con forza. La donna, nell’udire il rumore di un qualcosa di metallico, si fece avanti consapevole del fatto che dentro a quel sacchetto vi fosse del denaro, e disse: straniero cosa cerchi in questo villaggio, non sai che è pericoloso girare per le strade senza che i soldati lo vogliano? Gigetto con fare timido rispose: sono un povero sgorbio affamato ed è diverso tempo che il mio stomaco è vuoto, mi venderesti qualche pezzo del tuo buonissimo pane?. Poi si mise a piangere fingendo di essere uno storpio zoppicante.
La donna vedendo ciò si impietosì e vendette a Gigetto quattro pagnotte di pane appena sfornato. Lui le mise dentro alla sacca, pagò, e si diresse verso l’uscita.
Mentre stava per uscire la donna disse di nuovo: scusami straniero se sono stata intrigante ma questi sono tempi duri e infelici per noi di questo villaggio . Gigetto alzando gli occhi verso di lei rispose: non preoccuparti donna, il mio nome è Gigetto , lascio a tè il significato di ciò che vuol dire questo nome e se ne andò.
La donna non capì il senso di quella risposta e il suo sguardo si soffermò sul danaro poggiato sul bancone; si sentiva comunque soddisfatta di quei quattro pezzi di rame, questi compensavano pienamente tutte le strambe domande che si erano fatte avanti nei suoi pensieri.
Gigetto spostò lentamente la tenda gialla che copriva la porta e guardò se si vedevano nella strada soldati o altre persone che dovevano recarsi presso quel negozio.
Per un attimo rimase nascosto dietro ad essa, poi, visto che non appariva nessuno all’orizzonte, si diresse di corsa verso la stalla, mantenendo comunque la massima attenzione durante il tragitto di ritorno. Arrivò ansimante all’ingresso della stalla e vi entrò precipitosamente. Il cavallo era sempre lì, che girava in cerchio nel piccolo recinto, e Cippiricià era rimasto appollaiato sulla punta del cappello verde, in attesa che tornasse il suo proprietario. Alla vista di Gigetto , Cippiricià volò sopra ad un palo di legno ed il cavallo nitri per la contentezza.
Gigetto si sedette sulla paglia ed estrasse, con foga, un pezzo di pane dalla sacca.
Gli diede un morso che fece un solco più grande della sua bocca, la fame era tanta e in un battibaleno lo finì, diede qualche briciola di pane anche a Cippiricià che però lo rifiutò, non avendo voglia di mangiare, poi esclamò:”Ahh, con la pancia piena si riesce a ragionare molto meglio” ora, si sentiva sazio e soddisfatto.
La giornata era iniziata nel migliore dei modi, il sole cominciava a salire verso il centro del suo massimo e il caldo afoso mordeva il tempo dell’umidità.
Ora si iniziava a vedere distintamente l’interno della stalla, ed era ben visibile e chiaro di come tutto il suo contenuto fosse lasciato a sé, era tutto sottosopra la sporcizia ed il disordine regnavano in quell’ambiente, il tetto aveva dei buchi enormi che avrebbero permesso all’acqua, se avesse piovuto, di entrare e bagnare tutto ciò che stava sul pavimento, le finestre erano rotte e non vi erano persiane che le potessero proteggere, gran parte della paglia che stava sul pavimento era marcita mentre altra si era seccata formando dei grumi puzzolenti, i ragni correvano liberi sulle pareti impolverate e piene di ragnatele, l’odore che si avvertiva, lì dentro, non era proprio il massimo della pulizia. La sera prima Gigetto non aveva fatto caso a tutto ciò, era troppo stanco per rendersene conto, ma alla luce del giorno tutto ciò, colpì i suoi occhi.
Il cavallo, che si era abituato, suo malgrado, a quell’ambiente, ora si sentiva felice perché, finalmente, dopo tanto tempo, era riuscito a muovere la proprie zampe anche se era costretto, dal recinto, a muoversi dentro di esso. Gigetto prese il cappello da terra e se lo mise in capo, chiamando Cippiricià a sé. Ma era dubbioso, non sapeva se andarsene o rimanere per capire meglio la strana situazione di quel villaggio, e dentro di se sperava che Cippiricià , dall’alto dei suoi insegnamenti, potesse dargli un consiglio. Il tempo passava inesorabile, dalla strada si incominciavano ad udire le prime voci e i primi passi delle persone che la percorrevano e Gigetto a quel punto, fu costretto a rimanere rinchiuso in quella stalla.
Ogni tanto guardava fuori di nascosto, seduto dietro ad una finestra, per vedere se vi erano soldati di passaggio , o che volessero entrare nella stalla, pronto a nascondersi, se questo fosse avvenuto.
Nel frattempo il cavallo se la rideva di brutto, lanciando acuti nitriti verso Gigetto .
Dava l’impressione di schernire con i suoi versi Gigetto , per i suoi timori, fino al punto che si indispettì e gli disse con voce ferma: ascoltami bene somaro di un cavallo, cosa hai da ridere, ti fa piacere vedere i timori che ho nell’essere scoperto? Il cavallo lanciò un nitrito ancora più forte e rispose: mi fa ridere il tuo comportamento, non hai avuto paura di uscire per riempirti la pancia, ma hai paura che entri qualcuno e scopra il tuo nascondiglio”. Gigetto si soffermò per un attimo, ed affermò:”io sono Gigetto , caro il mio cavallo ,somaro e per tua sfortuna non ho paura di nessuno, tanto meno dei soldati.
Io non ho paura per me ma per loro!” Cippiricià, rimasto fino ad allora in silenzio, intervenne, stupido cavallo fino a ieri eri relegato ad una fune che ti teneva legato ad un muro, ora che hai acquistato un minimo di libertà credi di poter giudicare il comportamento degli altri? e con tono ancora più acuto ribadì: nonostante la tua lunga lontananza con le persone, hai mantenuto il loro sarcasmo, ma tu sei un animale, sei un essere diverso da loro, non imbastardirti con i loro pensieri. Il cavallo rimase colpito da quelle parole e di botto si arrestò dal girare che faceva nel recinto.
Il silenzio era sceso tra loro, l’aria era diventata pesante e nessuno dei tre aveva parole da dire, si era creata una palpabile situazione di stallo.
A quel punto, Cippiricià e il cavallo, si guardarono negli occhi e dai loro sguardi nacque una scintilla che dichiarò, da quel momento, un’amicizia profonda, nata da quelle poche parole pronunciate. Il cavallo si rese conto di essere un cavallo e non più un umile servitore di chi gli dava ordini per le esigenze proprie, finalmente comprese il significato di ciò che era, si sedette sulle zampe posteriori, e piccole lacrime scesero dai suoi grandi occhi. Gigetto, raccolto nei propri pensieri, seduto dietro ad una finestra, si alzo in piedi e gridando ad alta voce esclamò:sta arrivando qualcuno!.
Immediatamente corse a nascondersi sotto la paglia, mentre Cippiricià, a quelle grida, volò, con due colpi d’ala, sul tetto della stalla. Il cavallo, tornò nella sua posizione di sempre, assumendo la massima indifferenza, per nascondere l’assenza della corda che l’aveva tenuto legato fino a poco prima. Gigetto , trattenendo il respiro per non farsi sentire, sbirciava con la coda dell’occhio da sotto la paglia per vedere chi stava entrando, e Cippiricià, dal canto suo, che era più fuori che dentro alla stalla, non aveva timori di sorta.
Dalla porta, ignaro di tutto, entrò un piccolo bambino che teneva sotto alle braccia una modesta quantità di biada, da dare al cavallo, era un rituale che si ripeteva quasi quotidianamente, questi era rimasta l’unica persona che il cavallo frequentava negli ultimi tempi.
Il bambino si fece avanti, andò come sempre verso il recinto, e gettò la biada al suo interno e disse qualche parola al cavallo, parole di affetto, e si sedette per osservare meglio di quando lui allungava il collo per mangiare.
Al cavallo venne un dubbio atroce, se si fosse mosso, da quella posizione, il bambino si sarebbe accorto che la corda non lo teneva più legato al muro e aveva il timore che potesse avere una
reazione di paura, mentre, contemporaneamente, aveva anche una certa fame dal momento che la biada gettata nel recinto era fresca ed odorosa.
Il cavallo, a quel punto, prese la decisione di rimanere fermo e rimandare il suo pasto a quando il bambino se ne fosse tornato a svolgere le proprie azioni al di fuori della stalla.
Si creò una situazione strana, il bambino, vedendo l’immobilità del cavallo, ne rimase colpito, non era mai successo prima, di solito quando lui arrivava e gettava la biada nel recinto, il cavallo si precipitava a mangiare, ma non questa volta e ciò lo incuriosì, non capiva il perché di quel rifiuto. Mentre stava in attesa si guardò attorno, non aveva mai fatto tanto caso allo squallore di quella stalla, gli sembrava che fosse ancora peggio del tempo passato, notò la sporcizia, le finestre rotte e alzando lo sguardo verso il tetto vide Cippiricià, ritto sopra ad un travicello che lo osservava, alla sua vista i suoi occhi rimasero colpiti da quel bellissimo uccello variopinto che brillava sotto i raggi del sole, e ne fu affascinato, si alzò in piedi per cercare di avvicinarsi a lui e prenderlo, voleva portarlo con se, ma appena gli si avvicinò, Cippiricià, volò sopra ad un palo, che si trovava nei pressi del recinto, il bimbo, gli corse incontro, lo voleva, gli piaceva moltissimo, mentre correva, non fece attenzione al pavimento, ed inciampò in un pezzo di legno, perdendo così l’equilibrio.
Nel cadere, urtò, con il capo, contro lo spigolo del tavolo che si trovava al centro della stalla, finendo a terra, mentre un piccolo rivolo di sangue gli scese sul viso.
Si portò le mani al volto e sentì che qualcosa di umido le aveva bagnate, le guardò, e si rese conto che erano macchiate di sangue.
Alla vista del sangue si impressionò e perse i sensi, Gigetto, che dal suo nascondiglio aveva assistito a tutta la scena, si alzò immediatamente e andò verso il bambino, era preoccupato che nell’urto contro il tavolo avesse subito qualche grave danno, e si avvicinò con premura, al piccolo viso, per vedere se respirava, quando gli fu vicino, vide che tutto era normale, e si tranquillizzò, la ferita che si era procurato non era grande ma bensì era piuttosto un piccolo forellino da cui fuoriusciva molto sangue, così cominciò frettolosamente a cercare un po’ d’acqua per bagnargli la fronte oltre che per pulirgli il sangue che gli aveva imbrattato le rosee guance.
A forza di cercare la trovò dentro ad un secchio, ma non era pulita, vi era di tutto lì dentro, insetti morti, paglia marcia oltre a qualsiasi cosa di schifoso che il secchio potesse contenere, per di più puzzava anche, sicuramente era da molto tempo che il contenuto del secchio non veniva svuotato. Non poteva certamente usarla per lavargli il viso, anzi usandola avrebbe ottenuto l’effetto contrario, l’avrebbe sporcato oltre che infettato.
Si mise di nuovo alla ricerca di acqua pulita ma non riuscì a trovarne altra, il cavallo, per conto suo, cominciò ad impaurirsi, temeva che fosse successo qualcosa di grave al suo unico sostenitore di vita, e con voce tremolante disse a Gigetto: se guardi fuori dalla finestra, vedrai che nell’altro lato della strada c’è un contenitore pieno di acqua pulita, viene usato dalle persone per dissetarsi.
Gigetto si alzò e si diresse verso la finestra e notò che il cavallo aveva detto il giusto, l’unico problema, però, rimaneva quello di andarla a prendere.
La strada era affollata di gente e se fosse uscito sarebbe stato scoperto, Cippiricià, che fino ad allora era rimasto zitto e fermo sul palo, esclamò: ora ci penso io, preparati Gigetto e prendi un secchio vuoto fra le mani. Gigetto raccolse da terra un secchio vuoto e si avvicinò velocemente alla finestra per osservare le intenzioni di Cippiricia, pronto ad eseguirne le indicazioni. pronto amico mio? disse l’uccello rivolto verso all’amico, e si involò verso quella tinozza piena d’acqua.
Nel giro di brevi istanti arrivò al contenitore d’acqua e vi si appoggiò sul bordo, iniziò a fare dei versi strani, attirando così l’attenzione di tutti i passanti su di se, quando ebbe la certezza che tutti lo stessero guardando, si alzò in volo, ed iniziò a sfiorare con le ali i corpi di tutte quelle persone che lo stavano osservando.
Queste, vedendo la bellezza di quell’uccello, cercavano di afferrarlo per portarselo via, non si era mai visto niente di simile da quelle parti, Cippiricià poi furbescamente, iniziò a volare nella direzione opposta della stalla, facendo sì, che la strada si liberasse per il tempo necessario a Gigetto di riempire il secchio, con l’acqua pulita, che si trovava nella tinozza. Gigetto , vedendo che la strada si era sgombrata, si precipitò di corsa verso la tinozza, per riempire il secchio che teneva fra le mani.
La sua velocità nell’eseguire questa manovra fu istantanea, ci mise solo qualche attimo fra, andare, riempire e tornare, che nessuno avrebbe saputo fare di meglio, Cippiricià , dall’alto del suo volo, quando vide che Gigetto era tornato nella stalla si dileguò, e le persone rimasero col naso all’insù, dispiaciute per non essere riuscite ad afferrare quel magnifico uccello.
Fra queste persone, che inseguivano Cippiricià, c’era anche quel soldato che la sera prima aveva avuto modo di incontrarlo, e dentro di se fu ben contento di vederlo di nuovo, questo voleva dire che non si era dileguato.
Nei suoi pensieri non si era ancora spenta la sensazione che aveva provato nell’incontrare quell’essere volante parlante, accompagnato da quel piccolo corpo che lo sorreggeva.
Gigetto, tornato nella stalla, bagnò, con un pezzo di stoffa estratto dalla sacca, il viso del bambino e lo pulì dal sangue che ormai gli si era seccato sulla morbida pelle, il bambino al contatto con l’acqua fresca, si svegliò dal suo torpore, e vedendo dinnanzi a sé quel piccolo uomo ebbe un gemito di paura.
Non lo conosceva, per lui era un estraneo e fin da piccolo gli avevano insegnato di dubitare degli sconosciuti, Gigetto vedendo la sua reazione di timore, gli sussurrò, con tono calmo e pacato:”ciao piccolo uomo, non avere paura io sono Gigetto, il folletto dei sogni” e continuò chiedendogli:”come ti chiami?.
Il bambino nell’udire quelle parole tranquillizzanti e serene rispose:”mi chiamo Alessander.
Bel nome, disse Gigetto ,questo è un nome di persona importante,
pieno di significato e vita .
Il bambino non capiva il concetto di quelle parole e chiese a Gigetto: chi sei tu? Non ti ho mai visto da queste parti, cosa fai nella stalla del mio cavallo? Gigetto scoppiò a ridere dolcemente, cercando di far capire, al bambino, che non aveva nessuna intenzione di fargli alcun male. Intanto Cippiricià, che era tornato, dopo un largo giro nel cielo, nella stalla, si appoggiò sempre sullo stesso palo, osservando i due. Gigetto alzando lo sguardo verso di lui disse: hai visto amico mio come questo piccolo uomo ha interpretato le mie parole?
Ha alzato subito la cresta chiedendo, lui a me, cosa ci faccio io qui, invece di preoccuparsi di ciò che lo circonda, supponendo che io potessi essere un malandrino con intenzioni poco lodevoli, ha preferito attaccarmi con le sue parole e continuò ,mi piace, è molto orgoglioso, e l’orgoglio, se usato benevolmente, è un elemento positivo.
Il bambino, si alzò da quella scomoda posizione supina in cui si trovava, e vedendo che l’uomo che aveva di fronte non era più grande di lui, si fece forza, e rivolgendosi a Gigetto domandò: chi sei tu per comandare nella mia stalla? O per dire quelle parole di cui non capisco il significato? Cosa vuol dire pieno di significato e vita? Il cavallo nel frattempo cominciò ad afferrare la biada con la bocca, la fame prese il sopravvento su tutto il resto, e mentre mangiava, osservava, con la coda degli occhi, ciò che gli succedeva attorno. Gigetto, chiamò a se Cippiricià che si appollaiò sulla punta del cappello, e, abbassando leggermente le palpebre superiori, lo guardò dritto negli occhi. Alessander, avvertì l’intensità di quello sguardo, si sentii scrutato dalla testa ai piedi, avvertiva di quanto la forza del piccolo uomo fosse speciale e rimase immobile e in silenzio d’avanti a lui.
Gigetto , cercava, nella profondità degli occhi di Alessander, quel qualcosa che potesse convincerlo a fidarsi di lui, voleva capire se quel bambino rinchiudesse, dentro di se, un cuore buono e sincero. Rimase in silenzio per alcuni minuti poi disse:”io non sono nessuno, appartengo ad un mondo fatto di sogni e fantasie, cerco con le mie parole di aiutare chiunque voglia essere aiutato. Ho letto nei tuoi pensieri che vi è tanta tristezza in te, e ho visto dal tuo sguardo che sei pieno di coraggio. Dimmi piccolo Alessander dove sono i tuoi genitori? Alessander a quelle parole, scoppiò in un pianto liberatorio, la tensione del momento improvvisamente si allentò, lasciando scorrere sul suo viso lacrime bagnate di dolore.
Era da tanto tempo che non piangeva, tutte le angosce, i tormenti, la paure improvvisamente uscirono dai suoi pensieri, mischiandosi a quelle lacrime e bagnando copiosamente la maglia che indossava.
Nascose il capo fra le mani, si vergognava di ciò che stava facendo e non voleva farsi vedere in quello stato, l’orgoglio era molto forte in lui, già da parecchio tempo il sudore delle proprie mani e le difficoltà della vita gli avevano insegnato ad indurire il proprio carattere e rispose fra le lacrime: non ho genitori, sono morti quando ero ancora molto piccolo Gigetto commosso lo prese fra le braccia e lo strinse a se con forza dicendo: mi dispiace piccolo amico, non sapevo, non avevo nessuna intenzione di turbare il tuo spirito, e continuando gli disse: non essere triste, ricorda che prima o poi arriva sempre qualcuno che ti tende una mano per trascinarti verso la felicità, ma questo avverrà solo se tu l’accetti, solo tu potrai decidere se afferrarla o lasciarla. Alessander, emozionato da quelle parole, guardò Gigetto negli occhi e improvvisamente si rese conto che la persona che aveva di fronte non voleva fargli alcun male ma solo rasserenarlo, e raccontò la sua triste storia. Vivo in una casa che non mi appartiene, abito con una famiglia non mia, è da quando avevo 8 anni che non ho più i genitori e ora, che ne ho appena compiuti 13, mi sento abbandonato al mio destino. Nessuno si cura di me, le persone che mi accudiscono mi trattano come un servo, e i miei fratellastri mi considerano un impaccio per loro, loro vanno al castello, stanno con bambini vestiti bene, giocano spensierati tutto il giorno mentre io sono costretto a fare piccoli lavori per mangiare.
Se non porto a casa qualche soldo mi costringono ad accudire il giardino della casa in cui vivo, e se non mi comporto come loro vogliono, mi mettono in punizione, dentro ad uno stanzino buio e freddo.
Quando i miei genitori furono uccisi dai soldati, perché non vollero obbedire agli ordini della signora del castello, io fui risparmiato, a patto però che la famiglia, con cui ora vivo, mi accudisse fino all’età di 18 anni, e poi dopo, dietro una lauta ricompensa per loro, diventassi proprietà di questa malvagia signora.
Questo è il mio tragico destino, l’unica cosa che mi è rimasta dalla vita è questa stalla con quel cavallo che ora sta mangiando la biada che rubo nella stalla dei miei tutori, e se mi scoprono ho paura che uccidano anche lui e diano fuoco a questo fatiscente luogo, io qui ci abitavo con i miei genitori, e dietro a quella porta c’è ciò che è rimasto della mia vita, oltre ad essa c’è una casa in rovina, piena di topi e animali che si nutrono di quel poco che è rimasto, e non ho neanche più il desiderio di aprirla, quella porta, una volta, portava alle scale che finiscono nella mia piccola stanza dove, ricordo che mia madre, veniva sempre a svegliarmi con un bel bicchiere di latte caldo.
I bellissimi ricordi della mia infanzia sono l’unica cosa che mi tengono legato a tutto questo, il cavallo apparteneva a mio padre che, fin da piccolo, mi portava sempre a correre sulla sua groppa in mezzo ai verdi prati che circondano il villaggio, il cavallo si chiama Alep ed è l’unica cosa viva e mia che mi è rimasta.
Io tutte le volte che vengo a portargli la biada gli parlo sempre, gli racconto dei tempi passati, e sembra quasi che lui capisca le mie parole, anche se so che questo non è possibile, nessun animale può parlare o capire le parole dette dalle persone, ma non mi importa io continuerò, finché sarà possibile, a parlare con lui, almeno lui non mi tratta male come gli altri, anche se è solo un animale. Si interruppe, respirando profondamente, e altre lacrime di tristezza scesero dagli occhi ancora arrossati dal pianto precedente, finalmente era riuscito a confidare la sua triste vita a qualcuno, mai aveva parlato di se con altre persone.
Alessander non capiva il perché ma sentiva che dentro a quel piccolo uomo vi erano dei veri sentimenti di amicizia, Alep, udendo quelle verità, interruppe il suo pranzo ed alzò le zampe anteriori appoggiandole sulla barra del recinto; dai suoi grandi occhi scesero piccole lacrime di passione ed emise un lungo nitrito pieno di gioia. Gigetto, continuava ad osservare intensamente Alessander, voleva essere ben certo della sua sincerità poi ruppe il silenzio e chiese a Cippiricià: caro amico mio cosa ne pensi? Cippiricià non volle rispondere sul momento a Gigetto e si alzò in volo andandosi ad appoggiare sopra ad una spalla di Alessander.
Il ragazzo rimase fermo, immobile a tutto, aveva paura che anche il più piccolo movimento potesse far scappare quel bellissimo uccello che si era appoggiato su di lui. Cippiricià, col piccolo becco, lo stuzzicava nell’orecchio, gli dava dei piccoli morsi come segno di amicizia ed Alessander, nonostante il lieve fastidio che sentiva, cercava il più possibile di assecondarlo nei suoi gesti.
Dopo poco però non riuscì più a trattenersi ed improvvisamente, stimolato dall’uccellino , si mise a ridere, finalmente la tristezza aveva, anche se per breve tempo, lasciato il suo corpo. Cippisicià a quelle risa si involò e tornò nuovamente sulla punta del cappello di Gigetto dicendogli:”uhm, uhm, uhm, mi sembra che il ragazzo dica il vero” e chiese ad Alessander: ora dimmi quale è la cosa che più desideri al mondo? Alessander non credeva alle sue orecchie, un uccello parlante, mai aveva sentito parlare un volatile e quasi si spaventò nell’udire quella voce dissimile da tutte quelle che aveva sentito fino ad allora. Gigetto intervenne subito e con tono rasserenante gli disse: stai tranquillo Alessander questo è Cippiricià e rappresenta l’atra parte di me, noi siamo la stessa
anima, lo stesso cuore e lo stesso corpo, lui può parlare, ma lo fa solo con chi vuole ascoltarlo. Alessander, ancora frastornato dalla voce di Cippiricià, chiese di nuovo a Gigetto : io in questo villaggio ci abito, ma voi cosa siete venuti a fare? Gigetto rispose: tu credi nel destino? e Alessander ,non so di cosa tu stia parlando, io non so cosa vuol dire questa parola Gigetto continuò: il destino è quella cosa che porta gli esseri viventi verso la strada scritta da nostro Signore, ognuno la segue come intende, ognuno può scegliere se seguirla o abbandonarla, ognuno di noi, ha, quando nasce, un indirizzo, sta in noi capirne la giusta dimora”. Alessander faceva fatica a comprendere queste parole, nessuno gli aveva mai parlato in questi termini, lui conosceva solo quelle parole che gli davano ordini da eseguire, non si era mai soffermato a pensare che potesse esistere qualcosa di diverso, di magico, di fantasioso.
Lui conosceva solo la strada della cruda e dura realtà dei fatti materiali, della fatica, oltre che quella dell’obbedienza, Gigetto avvertì che dentro Alessander qualcosa stava cambiando, si accorse dai suoi gesti e dai suoi pensieri che la via della fantasia aveva creato una breccia nella sua vita, e ne era contento. Intanto Alep, sempre con le orecchie tese ad ascoltare, cominciò a girare di nuovo in cerchio dentro al recinto, e ogni tanto lanciava al vento lunghi nitriti pieni di gioia. Alessander ripensando alla domanda di Cippiricià gli rispose: la cosa che più desidero al mondo è unica, vorrei tornare ad essere felice come lo ero quando i miei genitori stavano vicino a me, quando mi coccolavano e mi concedevano il loro amore, quando mi accartocciavo fra di loro gustando quella meravigliosa sensazione che solo loro mi potevano regalare. Cippiricià, che era ancora appollaiato sulla punta del cappello di Gigetto, improvvisamente si alzò in volo, andandosi ad appoggiare sulla testa di Alep, fra le lunghe orecchie, e gli diede una beccata sulla fronte. Alep, dal forte dolore, fece un brusco movimento con la testa, squotendo il capo come per liberarsi da quel volatile, ma improvvisamente si sentii pesante e goffo, le zampe non lo reggevano più e dovette sdraiarsi sul pavimento, Alessander impaurito da ciò chiese a Cippiricià: perché hai fatto del male al mio cavallo?, io credevo che tu fossi buono, ma hai fatto cadere a terra Alep con il tuo fare.
Andatevene non voglio che gli facciate del male. Cippiricià, insensibile a quelle parole, volò di botto sulla testa di Alessander fecendo la stessa cosa anche con lui; lo beccò in mezzo alla fronte. Alessander sentì invadere in proprio corpo da qualcosa di diverso, di leggiadro ed ebbe quella strana sensazione in cui le forze vengono meno, poi cadde a terra, senza però perdere i sensi, non sentiva più niente nel suo corpo, non era più padrone delle sue membra, quel corpo non gli sembrava neanche più il suo. Poi Cippiricià, che nel frattempo era volato sul palo vicino a lui, disse: stai tranquillo Alessander vedrai che questo torpore ti passerà, come passerà anche ad Alep, e si involò verso il tetto della stalla. Gigetto intanto si era diretto verso il piccolo recinto dove dimorava Alep e ne aprì il cancello. Mentre Alessander , guardava, con occhi spalancati i movimenti di Gigetto, incredulo a tutto ciò, e non riusciva più a parlare dall’intontimento che la sua testa, in quel momento, stava subendo.
Passò qualche minuto, poi improvvisamente sia Alep che Alessander si ripresero ed entrambi si rizzarono in piedi.
Alep , con una spinta che mai aveva avuto in precedenza, uscì dal quel recinto che per tanto tempo l’aveva costretto alla prigione e Alessander , sveglio come mai, si sentiva leggero come una piuma. Il ragazzo, però, non capiva ancora il perché quei due fossero andati dentro a quella misera stalla, e di nuovo chiese a Gigetto : cosa siete venuti a fare in questo villaggio? Gigetto intuendo che Alessander non aveva per nulla compreso le sue parole rispose:”siamo venuti perché la mano di Dio ha spinto, sia me che Cippiricià , in questo posto”. Alesander , annuendo, fece finta di aver compreso anche se in realtà non fu proprio così. Cippiricià che era sul tetto improvvisamente fece un verso ad alta voce, e Gigetto , riconoscendolo, capì che era di pericolo.
Subito disse al cavallo di rientrare nel recinto e ad Alessander di fare come sempre, intanto lui tornò a nascondersi sotto la paglia.
Dalla porta entrò, con passo pesante, quel soldato che la sera prima stava sulla porta d’ingresso del villaggio, Gigetto indispettito, dalla sua presenza, pensò che quello era diventato il loro tormento, prima sulla porta, poi sulla strada e ora lì nella stalla, non capiva se quell’incontro era dovuto al destino oppure alla testardaggine di costui.
Il soldato entrò, Gigetto si accorse subito che non aveva addosso l’armatura ma era riconoscibile dagli occhi, questi tradivano il suo essere, e proprio da questi Gigetto, da sotto la paglia, ne riconobbe la fisionomia, nulla poteva sfuggire alla sua acuta vista, il soldato incuriosito dall’ambiente che lo circondava cominciò lentamente a guardarsi intorno, vide Alessander che puliva il recinto di Alep, e il cavallo ritto e fermo sulle zampe, poi alzando lo sguardo verso l’alto vide Cippiricià appoggiato sopra ad un travicello del tetto, un sospiro di sollievo usci dalla sua bocca, il timore che qualcuno, prima di lui, avesse acchiappato quell’uccello, lo aveva innervosito, non riusciva a spiegarsi il motivo dell’attrazione che provava verso quell’animale, ma sentiva che qualcosa lo legava a lui.
Quando Cippiricià volò via dalla strada, durante la mattinata, il soldato non fece come tutti gli altri che lo seguirono, ma si nascose dietro ad una casa seguendolo con lo sguardo, per poter poi, con calma, andarlo a cercare, vedendo che si era diretto verso la stalla diroccata, aspettò qualche tempo, fino a quando le acque non si fossero calmate, rimandando poi la ricerca a tempi più sicuri e tranquilli, era troppo incuriosito da lui, le sue parole l’avevano toccato internamente e forse, ciò che lo turbava di più, era quella sensazione di benessere che gli aveva procurato quell’incontro. Osservando il bambino, ora ragazzo, dentro al recinto che ramazzava, chiese: hei piccolo è tuo quell’uccello? , sapendo in cuor suo che comunque non gli apparteneva, Alessander rispose: no, è da quando sono arrivato qui, che è fermo sul tetto della stalla.
Il soldato annui, ora era tranquillo che niente lo potesse fermare, prese una specie di scala che si trovava stesa sul pavimento e la appoggiò ad una trave che si trovava vicina al buco sul tetto dove Cippiricià era appoggiato, fece il primo gradino, poi il secondo, poi il terzo e mentre si avvicinava all’uccello pregustava già il sapore di avere fra le mani quel meraviglioso volatile, nei suoi pensieri avanzava l’idea che se fosse riuscito a catturarlo l’avrebbe poi regalato alla signora del castello ricevendo in cambio una ricompensa.
Non si era mai sentito prima d’ora in quel villaggio di un uccello parlante, arrivato al quarto gradino improvvisamente il suo pensiero ebbe un sussulto e si fermò, e dalla sua bocca uscirono pensieri tramutati in parole dette a voce alta che raccontavano nel vuoto: se io catturo quell’uccello forse avrò una ricompensa, però questo non è certo, può darsi che la signora non apprezzi il mio regalo, come invece può essere il contrario. Se io catturo quell’uccello potrei tenerlo per me e dimostrare a tutti quelli del villaggio che possiedo qualcosa di unico. Se io catturo quell’uccello potrei diventare ricco vendendolo in un altro villaggio perché parlante. Se…se… se…”, poi, fra se e se, disse, senza parlare: ma perché devo fare questo?, a mè non interessa tutto ciò, mi basterebbe, in fin dei conti, che lui parlasse ancora una volta con me, e tutto il resto a poca importanza. tornò giù dalla scala, ripercorrendo all’incontrario i gradini che aveva salito poco prima, soffermandosi pensieroso ai suoi piedi.
Il dubbio aveva preso il sopravvento sui suoi pensieri, Alessander vedendo ciò, interruppe i lavori che stava facendo, e disse al soldato ingenuamente: salve, tu sei entrato nella mia stalla senza chiederne il permesso, cosa cerchi? .
Il sodato, noncurante delle parole di quel ragazzino era sempre più immerso nei propri pensieri, il dubbio che percorreva il suo corpo copriva tutto il resto, e le sue orecchie erano sorde a qualsiasi parola, passò qualche breve attimo poi Cippiricià, dal tetto, scese nella stalla, volando attorno alle orecchie del soldato, emettendo brevi ed acuti suoni. Cippiricià gli girava attorno sempre più veloce fino a fargli perdere il senso dell’equilibrio, la testa gli girava, immagini confuse comparvero dinnanzi ai suoi occhi, non riusciva a capire cosa stesse succedendo e preso da quel turbinio d’aria fu costretto a sedersi sul pavimento, la vista cominciava ad essere offuscata, non riusciva a distinguere nulla davanti ai suoi occhi e il torpore che lo stava invadendo confondeva i suoi pensieri. Gigetto , nel vedere il soldato a terra , reagì all’azione di Cippiricià, capì che il destino era il legame che lo aveva condotto in quella stalla.
Alessander, immobile con la scopa in mano, osservava quell’uomo e non capiva cosa stesse succedendo, poi turbato disse a voce alta: Gigetto esci dal tuo nascondiglio e viene ad aiutare
quest’uomo che non ha fatto nulla di male. Il soldato nell’udire quelle parole ebbe come un sussulto e chiese al bambino: con chi stai parlando?
Io non ho visto nessuno oltre a te, al cavallo e all’uccello.” Alessander si accorse di aver detto qualche parola di troppo e si ammutolì. Cippiricià, smise di volargli attorno e si fermò, adagiandosi sul pavimento, vicino a lui. Il soldato, data la vicinanza, l’osservò meglio, ed esterrefatto fece una esclamazione di gioia, non aveva mai visto un volatile così bello. Gli sguardi si incrociarono, e, come avvenne per il cavallo, una scintilla di profonda amicizia nacque tra i due.
Cippiricià rivolto al soldato disse: uomo perché mi vuoi prendere?, il soldato rispose: tu sei un uccello parlante, potresti fare la mia fortuna ,o la mia disgrazia, ma ciò ora non mi importa più, ciò invece che vorrei sapere da te è come riesci a parlare come faccio io, come un essere umano.
Cippiricià non rispose a quella domanda e gli volò sulla testa come prima aveva fatto sia con Alep che con Alessander , beccandolo sulla fronte.
Il soldato, ancora intontito, sentii che il corpo stava subendo una modifica nel suo essere e quasi perse i sensi dal torpore che lo stava invadendo. Alep , che si trovava al centro della stalla, osservava, senza muovere ciglio, quello che stava succedendo, mentre Alessander, da dentro il recinto, si diresse verso il soldato, tutti e tre si ritrovarono incredibilmente vicini e formavano, nel loro insieme, un quadro di estrema felicità.
A quel punto Gigetto uscì dal nascondiglio e si diresse verso loro, si unì a quell’insieme di benevolenza e disse: ora siamo in cinque, chissà se la nostra forza è tale da formare un connubio di energia , infilò la mano nella sacca ed estrasse alcuni pezzi di cristallo, i cristalli erano di diversa natura: uno era azzurro, ed era turchese; uno era rosa, ed era quarzo; uno era verde ed era malachite; uno era bianco ed era cristallo di rocca; uno era nero ed era tormalina. Gigetto li teneva in mano, e da ognuno usciva una leggera luce fosforescente, nessuno, a parte Cippiricià comprendeva il significato di quei gesti, poi il folletto spiegò: ora tutti voi potrete capire il significato dell’essere. Tu soldato che mi hai puntato la punta della spada sul petto capirai che non esiste il senso della giustizia se usata in modo improprio, tu Alessander capirai che la vita non è altro che l’evoluzione di se stessi, e tu Alep capirai che l’essere animali non vuol dire essere inferiori a nessuno .
Nelle mani di Gigetto si formò un cono di luce incredibile, piena di luminescenza, centinaia di piccoli punti luminosi si muovevano in tutte le direzioni senza avere una meta ben precisa, tutto si illuminò in quell’ambiente, poi, come richiamati da qualcosa, si concentrarono in un fascio unico fosforescente ed uscirono dal buco che c’era nel tetto .
Era fantastico, l’unione di quelle persone ed animali, di origini diverse, avevano realizzato in quel piccolo mondo qualcosa di unico, di estremamente indescrivibile, V
vi era rimasto solo un piccolo lato oscuro in tutto questo, il soldato. Cippiricià , aveva con il suo fare, precorso i tempi, Gigetto non era ancora convinto della sincerità del soldato, e gli chiese: come ti chiami uomo?. Mi chiamo Salvo rispose il soldato. Gigetto: Salvo, nome complesso e complicato, e continuò: può esprimere nella sua integrità qualcosa di positivo come qualcosa di negativo poi si zittì.
Intervenne Cippiricià :”dimmi Salvo quale è la cosa che vorresti avere più di ogni altra?.
Vorrei essere un uomo libero rispose Salvo.
Cippiricià non soddisfatto della risposta chiese ancora: cosa intendi per libero?, Salvo ci pensò un attimo, poi rispose: in questo villaggio la malvagità ha preso il sopravvento sulla bontà, il mio desiderio è che le persone che lo abitano possano, un giorno, essere libere come lo erano un tempo. Ora sia Gigetto che Cippiricià si convinsero della sincerità di quell’uomo e lo accettarono completamente.
Il soldato, che mentalmente era entrato in quella fantastica ed unica situazione, non fece neanche caso alla comparsa di Gigetto, anzi fu piacevolmente colpito che anche lui facesse parte integrante di quel piccolo e anomalo gruppo di soggetti. Un folletto , un uccello multicolore , un ragazzino , un cavallo , e lui un soldato .
Che fantastica unione, dal tetto della stalla, improvvisamente, scese quel cono di luce, che poco prima era salito verso il cielo, abbracciando con tutta la sua grandezza, i cinque. Attorno a loro si creò una bolla vuota piena di colori ed immagini irreali, e, agli occhi di tutti, comparve una forma nuvolosa, senza margini ben definiti, nessuno si spaventò a quella meravigliosa visione, era idilliaca e piena di serenità, sembrava una Madonna in procinto di pregare, aveva le mani incrociate, e volgeva lo sguardo verso l’alto, come per avere il permesso di dire ciò che voleva dire.
Sembrava che il tempo si fosse fermato, sembrava che l’orologio delle ore si fosse trasformato in quello della sabbia, e sembrava che la clessidra del tempo ne avesse interrotto la caduta, la luce che li attorniava si affievolì, e rimase, di fronte ai loro occhi, questa figura serena che con una sibilo
leggiadro disse: salve Gigetto , salve Cippiricià, ci rivediamo, ancora una volta la vostra presenza fra gli esseri umani ha portato una freccia di bontà. Salve Alessander, salve Salvo, salve Alep voi non mi conoscete ma leggo nei vostri cuori che la sincerità fa parte della vostra identità”. Poi lievitò verso il tetto dicendo ancora: Gigetto fai in modo che quei cristalli, che tieni nelle mani, vengano distribuiti nel giusto modo e tu Cippiricià fai in modo che la felicità torni in questo villaggio, io ho fiducia in voi” e svanì verso l’alto con tutta la sua luce.
La luce del sole penetrava dai buchi del tetto, rami luminosi entravano dappertutto poggiandosi su tutto ciò che incontravano e uno di questi colpì i cristalli che Gigetto teneva in mano, rendendoli caldi e vibranti. Gigetto li lasciò cadere per non scottarsi e guardò Alessander , Salvo e Alep negli occhi, poi disse: non spaventatevi di questo, se non mi sono sbagliato nel giudicarvi voi sarete le spade per distruggere la malvagità di questo villaggio.
Salvo, essendo l’uomo, parlò per primo dicendo: Io, nella mia ignoranza, non ho capito nulla di tutto ciò, e l’unica cosa a cui tengo è quella di eseguire quello che quell’immagine ha detto, far tornare la felicità in questo villaggio . Poi fu la volta di Alessander , io sono giovane ed ingenuo, e l’unica cosa che desidero è quella di non essere venduto a quella malvagia signora, per poter così vivere la mia vita . Poi Alep , io sono un semplice cavallo, e la mia forza servirà per sorreggere il vostro peso nel distruggere il male.
Sia Alessander che Salvo rimasero a bocca aperta, con gli occhi spalancati dallo stupore, sentirono uscire dalla bocca del cavallo delle parole e non dei nitriti, non credevano alle proprie orecchie. Alessander fu il primo a replicare e rivolto ad Alep disse: ma tu parli?” e Salvo, subito dietro: non è possibile, prima un uccello parlante ora anche un cavallo parlante, credo di essere impazzito”. Intervenne Cippiricià: noi animali parliamo solo con chi ci vuole ascoltare, ho introdotto nelle vostre menti, quando vi ho beccato in fronte, il dono del sentire parole diverse, ma non ero sicuro che funzionasse, ora ne ho la certezza, tutti e cinque scoppiarono in un riso comune, pieno di gioia e felicità, si sentirono da quel momento una forza unica, si guardarono intensamente e compresero, dai loro sguardi, che insieme avrebbero portato a termine ciò che ognuno di loro si era prefissato. Gigetto richiamò a se l’attenzione dovevano fare un piano ben congegnato per non essere scoperti ed eventualmente uccisi, raccolse da terra i cinque cristalli, e li distribuì. Ha Salvo diede il turchese e disse: il colore e la forza di questa pietra ti proteggeranno dai tuoi simili, mettilo al collo con un legaccio di corda, legalo ben stretto, e bada di non perderlo. Salvo lo prese e così fece, Ad Alessander diede il quarzo rosa dicendogli: la purezza di questa pietra rappresenta il tuo cammino, osservalo bene e cerca ciò che esso nasconde nel suo interno,un giorno non lontano ti sarà di grande aiuto, nascondilo in un luogo sicuro e quando sarai diventato grande vi leggerai la strada che ti porterà verso la tua crescita individuale, Alessander lo prese e lo mise nella tasca dei pantaloni. Ad Alep assegnò il cristallo di rocca e disse, Alessander metti questa pietra, legato con una sottile corda, al collo di Alep , e che la trasparenza dei suoi cristalli ci indichino la giusta via”. Alessander così fece. A Cippiricià diede la malachite e disse: per te amico mio questa pietra rappresenta il paradiso, il suo potere è quello di confondere i pensieri degli uomini e renderli lucidi, da cattivi e maligni, mettilo nel tuo becco e ingoialo fino a farlo cadere nel tuo stomaco, quello è l’unico punto dove non ti potrà sfuggire, Cippiricià , come fosse un pezzo di cibo, lo ingoiò e fece anche un sol boccone , con un piccolo rumore di digestione a dimostrazione che gli era arrivato nel profondo dello stomaco.
Infine disse: per me tengo la tormalina nera, ci servirà nella lotta, essa rappresenta un simbolo di saggezza, che rimane luminosa anche di fronte alle vicissitudini del destino, oltre ad essere un simbolo del sole, in grado di rafforzare il cuore e se la infilò nel taschino della giacca, chiudendo la pattina che vi era sopra, col bottone.
I cristalli non erano grandi ma avevano in se un grande potere, donatogli dall’immagine sacra che poco prima si era presentata a loro, erano quasi pronti a formulare il piano, mancava però, ancora una cosa all’appello, perché tutto funzionasse per il verso giusto. Gigetto aprì la sacca ed estrasse dal fondo un libro, lo poggiò sul pavimento della stalla e disse: in queste pagine vi è scritto il vostro destino, quello che è stato e quello che sarà, non potrete leggerlo, a nessuno è concesso di conoscerlo, ora inginocchiatevi attorno ad esso e pregate Dio per le vostre anime. Per Salvo ed Alessander inginocchiarsi era semplice ma per Alep era un po’ più laborioso. Cippiricià consapevole di questo volò sulla testa di Alep e lo spinse giù facendolo cadere sulle zampe anteriori.
Salvo: io non ho mai pregato e non conosco nessuna preghiera, ma conosco i miei sentimenti e prego Dio perché doni la libertà alla mia gente . Alessander di seguito: le preghiere nella mia casa le fanno dire solo ai miei fratellastri, e quando viene il prete, mi rinchiudono nello stanzino buio, per non farmele ascoltare, una però me la insegnò mio padre e anche se ero piccolo la ricordo” poi disse: grazie Signore, perché mi hai donato la vita. Alep che non ne capiva il significato guardò tutti e a voce alta fece un lungo nitrito, bene disse Gigetto ora allontanatevi e non dite nessuna parola, prese dalla sacca una piccolo acciarino, lo sfregò e una scintilla colpì il libro mandandolo a fuoco, il bagliore che ne scaturì fu molto grande, durò un breve attimo poi tutto svanì nel nulla.
Cippiricià fece un verso lamentoso rivolto verso l’alto e si involò verso il buco nel tetto, scomparendo alla vista di tutti, nessuno parlò, il silenzio regnava fra loro, dopo qualche secondo, tornò , che con parole di gioia disse: ora siamo pronti, prepariamoci ad andare, ed atterrò sulla punta del cappello di Gigetto , il sole era al culmine del cielo, il caldo era torrido dentro alla stalla, gli odori forti degli escrementi di Alep salivano verso le narici dei presenti, e fuori, lungo la strada, le voci delle persone che passavano, si sentivano chiaramente, Gigetto richiamò l’attenzione su di se e con tono fermo disse: ora amici miei è giunto in momento che assegni ad ognuno di voi il compito necessario per adempiere questa missione, si mise al centro, dove prima aveva messo il libro, ed estrasse dalla sacca degli abiti dicendo: Salvo indossa questo vestito marrone, legalo alla cinta e metti il cappuccio, così nessuno ti potrà riconoscere, tu Alessander metti questa tunica bianca poi prendi un bastone e una corda, ad Alep non serve nulla ,va bene così com’è, io indosserò un abito rotto e pieno di buchi e Cippiricià lo nasconderò nella sacca, poi iniziò a raccontare ciò che dovevano fare: ora usciremo dalla stalla lentamente, per dirigerci verso il castello, sul cavallo salirà Alessander e tu Salvo lo terrai per il davanti, io starò al tuo fianco e tu ogni tanto dovrai pronunciare, verso di me, qualche parola di disprezzo, Cammineremo a passo lento e anche se gli abitanti ci dovessero notare o fermare tu Salvo dovrai fargli capire, con tono brusco, di stare lontani perché la peste ha invaso i nostri corpi continuò dicendo: in questo modo dovremmo arrivare fino alla porta del castello senza che nessuno ci fermi, ma se ci dovessero essere problemi tu Alep dovrai fare nitriti di sofferenza, e tu Alessander dovrai fingere di piangere, con la testa fra le mani, per il dolore provocato dalle piaghe, fece una pausa, voleva capire se le sue parole erano state comprese completamente, Salvo, Alessander e Alep annuirono per fargli capire che avevano capito.
Gigetto continuò: arrivati alla soglia della porta del castello, tu Salvo, tenendo nascosto il volto dal cappuccio, dovrai dire alle guardie che sei un umile servo che porta queste persone al castello per redimerle alla volontà della signora e che vorresti conferire con lei perché io Gigetto il folletto nascondo un gran segreto, conosco un luogo pieno d’oro, sicuramente le guardie accetteranno questo messaggio consapevoli del fatto che la loro signora è molto avida di denaro, una volta entrati lasciate fare a me, Gigetto si fermò di nuovo, fece un lungo sospiro e disse :bene amici miei ora andiamo e che il destino ci aiuti, prima però vorrei ringraziarvi per ciò che i vostri pensieri desiderano, essi sono pieni di bontà e vedrete che tutto andrà come previsto. poi infilò di nuovo la mano dentro la sacca ed estrasse un piccolo oggetto pieno di scritte e lo lesse ai presenti.
Quelle parole dette al cielo erano la richiesta di protezione per la loro difficile missione, e partirono, uscirono dalla stalla e si incamminarono a passo lento verso il castello, la strada da percorrere non era molta e dopo poco, senza che nessuno notasse il loro passaggio, arrivarono alla porta del castello.
Salvo, nascondendosi il volto per non farsi riconoscere, disse quelle parole alle guardie e come previsto tutto andò come doveva, entrarono accompagnati da un soldato e furono sistemati in una sala molto grande, non vi era nessuna persona all’interno, ma solo quadri raffiguranti figure di possidenti morti, argenteria sopra i tavoli, tende magnifiche alle finestre e il pavimento era composto da bellissimi marmi che riflettevano le loro immagini dal gran che erano puliti. Alep, essendo un cavallo, non poteva certamente entrare ed iniziò a mangiare l’erba che era nel giardino; era da molto tempo che non provava la piacevole sensazione di gustare il sapore dell’erba fresca. Passarono diversi minuti dal loro arrivo e nel frattempo nessuno dei cinque aprì bocca, rimasero in attesa degli eventi futuri, da una porta comparve una persona che li invitò ad entrare in un’altra sala simile a quella, i nostri eroi seguirono quella persona che gli disse con tono arrogante: inginocchiatevi sta per entrare la signora , si guardarono tutti e tre in faccia e un sorriso di ironia comparve sulle loro labbra, da una porta color oro entrò la signora seguita da due soldati in uniforme dorata, e si accomodò su un trono costruito apposta per lei.
Era una bella donna, nulla da dire, ma il suo sguardo nascondeva qualcosa di infido, di tetro, quando guardava le persone che le erano accanto si vedeva chiaramente, dal suo modo di fare, che si riteneva superiore ad esse, e quando parlava non faceva altro che dare ordini secchi e perentori. La sua immagine era coperta da un alone invisibile di fumo nero che impediva ai suoi sentimenti di fuoriuscirne dal corpo.
Padrona del castello disse con tono inquisitorio: allora, servi, chi è di voi, che voleva dirmi di questo oro?.
Nessuno parlò e lei indispettita ribadì: allora cosa siete venuti a fare se non avete nulla da offrirmi?. Nessuno ancora parlò e lei innervosita si alzò in piedi e brandendo le braccia verso di loro disse: mi state forse prendendo in giro? Guardie prendete questi esseri, dategli cinque frustate e cacciateli fuori dal villaggio!. girò il sedere a tutti e si infilò verso la porta da dove era venuta, mentre stava per imboccarla Gigetto saltò su e con fare gioioso e con voce alta, cominciò a ridere, lei a quelle risa si voltò, e sentendo, che quel piccolo essere con abiti da straccione, si prendeva gioco di lei ebbe una reazione isterica e si diresse contro di lui per dargli uno schiaffo.
Gigetto non si mosse dalla sua posizione e vedendo che ella si stava avvicinando, guardandola con occhi pungenti, esclamo:”uhm, uhm, uhm, bella ma troppo piena di se!, e continuò: io sono Gigetto il folletto dei sogni, ma tu chi sei? , e di corsa, andò a sedersi sul suo trono.
Alla vista di ciò la signora chiamò i soldati, imponendogli di prenderlo e ucciderlo, aveva osato sedersi sul suo trono, quale eresia aveva commesso questo pezzente, pensò lei!!
Due soldati si gettarono su di lui per immobilizzarlo ma quando gli misero le mani sulle spalle, ebbero come la sensazione di prendere la scossa, e lo lasciarono immediatamente, la signora vedendo la scena, ancora più arrabbiata, si diresse verso di lui dicendo: come ti permetti di entrare nei miei possedimenti e di sederti sul mio trono?. Gigetto non rispose, la guardò dritto negli occhi, aspettò qualche secondo e poi le disse:”uhm, uhm, uhm donna dai tetri sentimenti, hai bisogno di una lezione di vita, guarda lì! indicando un quadro appeso alla parete. La donna incuriosita da quelle parole guardò il quadro segnato da Gigetto, dal momento che, pur osservandolo, non avrebbe cambiato la sorte di quello straccione che si era preso gioco di lei, appena i suoi occhi si posarono sulla figura dipinta nell’interno del quadro, le sembrò che cominciasse a muoversi e a quella visione ebbe una reazione di timore, fece un urlo, e barcollando si spostò di un passo indietro, i due soldati sentendo l’urlo, e vedendo il brusco movimento della loro padrona ma non vedendo ciò che lei vedeva, si guardarono in viso, e squotendo la testa si dileguarono attraverso la porta da cui erano entrati, pensando che fosse impazzita dalla rabbia.
Rimasta sola in quella grande stanza, con i nostri eroi che le facevano compagnia, si guardò attorno, per la prima volta si sentiva abbandonata, e neanche il suo potere, in quel momento, poteva aiutarla.
Urlò a gran voce chiamando di nuovo le guardie, minacciandole di farle uccidere se non fossero tornate da lei, le guardie a quegli urli, conoscendo la cattiveria della loro padrona, tornarono di corsa, e si posizionarono al fianco di Salvo ,e Alessander , Gigetto notando che lei cominciava a dare segni di un crollo annunciato, disse ad Salvo ed Alessander : guardate, costei, è quella che a te Salvo dava ordini malefici, e a te Alessander, doveva comprare la vita, provate ad immaginare la vostra esistenza agli ordini di una persona debole ma piena di se che alla prima reale sconfitta si nasconde dietro ad un paravento immaginario, se non ci fossero i soldati a proteggerla sarebbe solo un sacco pieno di immondizia, poi disse a Cippiricià, ancora nascosto nella sacca: esci Cippiricià, guarda questa povera donna e dimmi ciò che vedi, nel frattempo Salvo ed Alessander cominciarono a sentirsi forti, le pietre che indossavano gli davano vigore e forza, la situazione che si era creata aveva inculcato nelle loro menti pensieri diversi e, soprattutto, il domino di Gigetto su di lei gli fece capire che ella non era altro che una persona come tutte le altre, fatto sta che non avevano più paura di lei, anzi si sentivano addirittura padroni di quella casa. Cippiricià, uscito intanto dalla sacca, cominciò a volteggiare in quella grande stanza starnazzando versi inconsueti, la signora alla vista di quell’uccello, di nuovo fece un urlo, e con le mani si coprì la testa. La paura che questo potesse attaccarsi ai capelli le faceva ribrezzo, poi disse ai soldati: branco di buoni a nulla, prendete quell’uccello, anzi tirategli delle frecce e uccidetelo, non lo voglio nella mia casa. i due soldati presero l’arco che tenevano agganciato alla cinta, presero una freccia a testa dalla faretra, la caricarono nell’arco, tesero la corda, presero la mira e la scagliarono verso Cippiricià, che indifferente al passaggio di quei due pezzi di legno volanti, fece un urlo così assordante che i bicchieri che stavano appoggiati sul tavolo caddero a terra rompendosi, poi andò ad appollaiarsi sulla punta del cappello di Gigetto, la situazione che si era creata era diventata pesante, la donna era ferma al centro della sala piuttosto sconvolta,
Gigetto era seduto sul trono con Cippiricià sulla testa ed entrambi ridevano, Salvo ed Alessander, pronti ad entrare in azione, erano fermi vicini alla porta con i due soldati che guardavano increduli e pensierosi la scena.
Ci sarebbe voluto un pittore per fermare quell’attimo in un quadro da appendere, insieme agli altri, in una parete di quella grande sala. Il primo a rompere il silenzio fu Gigetto il folletto :Salvo disarma quei soldati e con la spada tienili a bada disse, Salvo in un baleno disarmò i suoi ex colleghi, che non si resero neanche conto di quello che stava succedendo, intimandoli di stare fermi. Gigetto disse ancora:Alessander vieni qui, Alessander di corsa andò verso di lui e si sedette sulle sue ginocchia, poi Gigetto con tono perentorio disse: donna inginocchiati, lei: perché dovrei inginocchiarmi di fronte a te?, hai invaso la mia casa, io qui sono la padrona, Gigetto: Cippiricià vola su di lei. Gigetto si involò e cominciò a volare vorticosamente attorno alla donna, prima lentamente poi sempre più veloce fino a creare un vento talmente forte che gli oggetti presenti nella sala cominciarono a spostarsi dalla loro posizione, alcuni quadri si staccarono dalle pareti rompendosi al contatto del pavimento, le tende si staccarono dai legni che le sorreggevano volando fuori dalle finestre, i mobili si mossero fino a scontrarsi fra loro facendo cadere tutto ciò che vi era appoggiato sopra, i soldati per non cadere si appoggiarono alla parete dietro di loro, impauriti da quel improvviso e potente vento che si era alzato nella sala, la donna era la centro di questo gran turbinio e non riusciva a spiaccicare una parola, mai aveva visto una cosa del genere. Cippiricià continuava a volteggiare in cerchio finché Gigetto non diede l’ordine di fermarsi.
Poi disse: Salvo togliti il cappuccio, Salvo lo tolse mettendo a nudo il suo viso, alla vista del volto di Salvo i due soldati lo riconobbero e fecero per andare verso di lui per combatterlo, Salvo ordinò loro di rimanere fermi, gli puntò contro la spada e disse loro: il giorno della verità è giunto, preparatevi a cambiare padrone, i due soldati non capivano il significato di quelle parole e rimasero fermi minacciati dalla spada che Salvo impugnava. Anche Alessander , ascoltando le parole di Salvo, si chiese quale fosse il significato di quella frase ma non chiese nulla e rimase in silenzio. Salvo continuò: io ho la conoscenza dei fatti che sono successi in questo villaggio, alcuni anni or sono, ed ora è giunto il momento che tutto torni come prima , guardò Alessander ed una piccola lacrima scese dai suoi occhi. Alessander si guardava attorno cercando negli occhi del folletto e di Cippiricià una risposta, ma nessuno dei due disse nulla, dal cortile intanto si sentivano voci concitate di soldati e persone che accorrevano verso l’ingresso della casa, si era smosso un gran putiferio con tutti quegli urli e oggetti volanti che volavano fuori dalla finestra, la donna intanto era rimasta ferma ed impietrita al centro della sala non riusciva più a imporre alla bocca e al corpo nessun tipo di ordine, la paura l’aveva inchiodata nella posizione che aveva assunto poco prima.
Gigetto disse ai compagni: rimanete fermi e in silenzio, aspettiamo che arrivino tutti, di lì a poco cominciarono ad arrivare i primi soldati poi le governati che accudivano la casa poi le persone che in quel momento si trovavano al castello, compresa la famiglia di Alessander al completo. Sembrava che si fossero dati, tutti quanti, un appuntamento alla stessa ora e nello stesso posto, quando entrarono la scena che si presentò ai loro occhi fu sconvolgente, tutto era sottosopra, tutto era in disordine, la confusione era padrona di quella stanza, l’impressione che dava era quella di un passaggio di un tornado che con la sua furia aveva spazzato via tutto, increduli ed esterrefatti a quella vista, rimasero ammutoliti ed immobili vicino alla porta, c’erano circa venti persone a quell’appuntamento e tutte o quasi colpevoli di aver nascosto un segreto, un tragico segreto che anni prima cambiò la vita in quel villaggio.
I soldati, entrati per primi, svegliatisi da quel momentaneo stato di incertezza, cercarono di catturare Salvo, il quale, visto che erano in molti, si diresse di corsa verso il trono dove c’erano Gigetto ,e Cippiricià, con Alessander, posizionandosi alle loro spalle. Alessander impaurito, vedendo Salvo andare verso di lui, scese dalle ginocchia di Gigetto e si mise al suo fianco, stringendolo forte alla cinta, ci fu una frazione di secondo dove tutti i presenti ebbero una sensazione di totale assenza, e la prima a muoversi fu la donna, improvvisamente si scosse dallo stato confusionale che l’aveva pervasa, e con estrema cattiveria intimò ai soldati di lanciare frecce a quegli estranei che avevano invaso, oltre che distrutto, la sua magnifica sala, un soldato prese l’arco, mise una freccia e la scagliò in direzione dei nostri amici, il legno, nel suo percorso di morte, percorse tutta la sala, colpendo, alla fine della tragica corsa, Alessander nel basso ventre, scaraventandolo a terra. Subito Gigetto si girò verso di lui timoroso che quel dardo l’avesse ucciso, Cippiricià si sollevò in volo, andando contro quella gente facendo versi inusuali, e ad Salvo il sangue salì su, fino alle tempie ,e senza paura, si gettò verso quel soldato scaricandogli un pugno sul viso e facendolo cadere a terra privo di sensi, poi, con una forza a lui sconosciuta, colpì quei soldati che cercavano di catturarlo stendendoli tutti al tappeto con un bastone che nel frattempo aveva raccolto da terra, intanto la donna vedendo che la freccia aveva colpito il bambino fece un urlo di compiacimento e dalla sua bocca usci un sorriso ironico, lei pensava di avere vinto la battaglia, ma non immaginava di certo il susseguirsi tragico che la stava aspettando, Gigetto con un salto, scese dal trono chinandosi su Alessander e vide che la freccia gli si era piantata nel basso ventre e fece per toglierla, ma mentre la stava tirando per la coda intervenne Alessander che con un leggero sorriso disse: lasciala dove si trova , e si alzò in piedi, incurante del dardo che fuoriusciva dal suo vestito. Gigetto incredulo si spostò e si affiancò a lui notando che c’era qualcosa di strano in Alessander, Cippiricià volava attorno a quella gente sputandogli addosso un liquido che, dove colpiva, a contatto con la pelle, provocava delle ustioni profonde e dolorose, i colpiti cadevano a terra attorcigliandosi su se stessi e piangenti di dolore, Cippiricià non sparava nel mucchio ma sceglieva accuratamente le persone da colpire, sputava solo su quelle che sentiva nel pensiero negative, risparmiando le positive, la donna, in preda ad un attacco di panico, cominciò ad urlare e a correre senza meta nella grande sala, affacciandosi alla finestra per chiedere ulteriore aiuto, le sue urla si sentivano in tutto il villaggio e il popolo, a quei richiami, corse incuriosito verso il castello, non capivano cosa stesse succedendo dentro a quelle mura. Gigetto si girò verso ad Alessander e lo guardò meglio voleva osservare meglio il suo stato fisico, si abbassò verso la freccia e notò un particolare, questa, non era entrata nel corpo di Alessander , ma, si era conficcata nel cristallo che quando entrò nel sala, spostò dalla tasca dei pantaloni mettendola in una tasca interna del vestito che indossava, proprio all’altezza del basso ventre. Alessander guardò Gigetto e disse: un giorno non lontano ti sarà di grande aiuto. Queste parole che tu mi hai detto si sono dimostrate vere, non so il perché ho cambiato la posizione al cristallo, ma so che questo mi ha salvato la vita e lo abbracciò, si era creata un gran confusione nella sala, chi correva fuori, chi si nascondeva sotto ai tavoli, chi cercava di fermare Cippiricià con le armi, chi urlava per lo spavento, e chi come Salvo si sentiva padrone della situazione, la lotta era il suo pane, lui fondamentalmente era un combattente nato. Gigetto , notando la gran confusione che si era creata, salì in piedi sul trono e a voce alta chiamò a se l’attenzione gridando!: fermi, tutti torna qui Cippiricià , Salvo vieni vicino a me, e voi che non avete subito la punizione di Cippiricià rimanete dove siete, tu donna inginocchiati prima che Cippiricià ti colpisca con la sua saliva dolorosa, tutti eseguirono le indicazioni del folletto, la forza, che i quattro intrusi imponevano a tutti, li rese consapevoli che la battaglia era finita e persa, Gigetto osservò Salvo e con uno sguardo profondo, gli fece capire che era giunto il momento di raccontare la verità ai presenti, Salvo cominciò a raccontare.
Alcuni anni or sono i padroni di questo villaggio erano buoni e sinceri, non avevano mai imposto a nessuno il proprio volere e la propria forza, un giorno decisero di avere un erede per proseguire la dinastia e quando questi arrivò e conobbe la vita,la madre non riuscì ha superare il parto, lasciandoli soli.
Il padrone ancora giovane, e con un figlio piccolo, sostituì la sposa morta con un’altra donna che dopo poco sposò, la donna, però, non voleva saperne del figlio non suo, quindi, convincendo il marito, il piccolo, venne dato in affidamento ad una coppia di persone con il compito di accudirlo in silenzio, pena la morte, forse il padrone pensava, che costei, qui presente, potesse essere buona come la moglie morta, ma dopo poco tempo, questa infida donna, con le sue parole, convinse il padrone a cambiare lo stato delle cose, lo convinse che questo popolo, poteva essere spremuto e dare di più, lo convinse perciò ad aumentare le tasse oltre che ad imporre la propria volontà ed il proprio dominio su tutto.
Le cose cambiarono, il villaggio diventò come una prigione per tutti noi, e chi non era d’accordo col nuovo regime, veniva segregato nelle prigioni o ucciso, quando lei capì, che era completamente padrona di tutto, fece uccidere il marito, simulando un incidente, diventando così l’unica proprietaria di tutti i possedimenti della contea.
Io Salvo feci finta di accettare queste imposizioni con la speranza che prima o poi questa malefica situazione sarebbe cambiata, ciò avvenne il giorno in cui questi due esseri, un piccolo uomo ed un magnifico uccello parlante, si presentarono ai miei occhi, quel giorno, dentro di me, avvertii che costoro potevano cambiare le sorti della nostra esistenza, facendola ritornare a quella di un tempo. Ma quello che voi, a parte qualche misero essere, non sapete è che Alessander , quel ragazzo vicino al trono, è il figlio della prima unione del vecchio padrone.
Quando Alessander cominciò a crescere, questa donna, venne a sapere che i genitori, a cui fu affidato la prima volta, volevano raccontargli la triste verità, e quindi decise di farli uccidere, a quel punto, non potendo uccidere anche lui, anzi pensando che un giorno gli sarebbe tornato utile, affidò Alessander ad un’altra famiglia, con l’impegno che una volta grande, potesse diventare suo e consacrare col sangue nativo di quelle terre, il suo potere, io rimasi sempre nell’ombra, ma come me, altri sapevano, senza però poter fare nulla, la verità, ora tutti conoscete quello che è successo in questo villaggio, ora potete scegliere da che parte stare, ma ricordate che io, Salvo, da oggi, a costo della mia stessa vita, veglierò su Alessander perché possa regnare libero in questo, che è il suo palazzo, e in quelle, che sono le sue terre, e si fermò osservando Alessander .
Alessander a quelle parole si sentì diverso e pieno di se, l’aver appreso questa verità da una parte l’aveva sconcertato mentre dall’altra reso felice, e gli tornò in mente il cristallo che teneva in tasca pensando che, senza quello, la sua vita sarebbe finita e quello, che ora sapeva il suo popolo, destinato alla malasorte, subito disse ai soldati di fermarsi e di catturare la donna, oltre a tutti i presenti, che fino a quel giorno, si erano dimostrati compiacenti verso di lei, intanto la gente del villaggio cominciava ad affluire nella sala, che ora era diventata troppo piccola per ospitare tutte quelle persone, questi, ascoltando quella verità, pronunciata da Salvo, cominciarono a scandire a voce alta il nome di Alessander , ora conoscevano il loro vero padrone. Alessander, sentendosi responsabile, con impeto pronunciò a voce alta: Popolo infelice, da oggi le cose cambieranno, farò in modo che tutto torni come tanto tempo fa.
La donna, sentendosi scoperta, tentò l’ultimo assalto verso Alessander, e con un piccolo pugnale, che teneva nascosto sotto le vesti, lo attaccò, cercando di colpirlo al cuore, per ucciderlo. Cippiricià, nella sua magnificenza, ne intuì le mosse, si alzò in volo e sputò con forza una goccia di saliva verso la donna, che venne colpita agli occhi, ed istantaneamente la vista le svanì, questa fu la punizione divina che Cippiricià le inflisse.
Era disperata, tutto quello che aveva costruito in quegli anni, in un attimo, le crollò addosso e sottomessa si sedette a terra, i presenti cominciarono a sussurrare parole e mentre queste si levavano al cielo, una nube invase la sala, rendendo l’ambiente privo di luce, dopo pochi istanti, da una finestra, entrò quell’immagine che i quattro già conoscevano e si inginocchiarono a lei.
Il vento che la circondava era forte, la luce che la invadeva era accecante, la sensazione che dava era impressionante e la luminosità che esprimeva era estremamente serena, e disse, con tono dolce: popolo semplice ed umile, ora conoscete la verità, decidete voi cosa fare ,e la luce tornò.
Cippiricià si posizionò sulla punta del cappello di Gigetto , appollaiandosi ed addormentandosi stremato, a Gigetto scaturì sulla bocca un largo sorriso, ed a Salvo si insinuò nella mente il pensiero che finalmente il male era sconfitto.
Alessander improvvisamente fattosi uomo ordinò di scacciare dal villaggio tutti i malfattori, e ordinò di mandare quella malvagia donna, ora cieca, al giudizio della corte suprema, perché decidessero cosa fare di lei.
Finalmente la pace ritornò fra quella gente che per tanti anni subì angherie di ogni tipo e forma, ma principalmente in quel villaggio ritornò la serenità smarrita per colpa di una malvagia ed infida donna che, nella sua malignità, nascose sotto al dominio di quello che lei voleva diventasse il suo regno. Qualche giorno passò e Gigetto, ora libero di passeggiare per il villaggio, tornò a salutare quella donna che gli vendette il pane, lei nel vederlo lo salutò e con un sorriso disse: ora ho capito cosa vuol dire il tuo nome, e continuò dicendo: giustizia .
Gigetto infilò la mano nella sacca ed estrasse la tormalina nera, e mentre gliela allungava fra le mani disse: questa è la pietra del giusto destino, conservala fra le tue cose, la salutò e si diresse verso il castello per salutare Alessander e Salvo.
Il tempo per lui e Cippiricià in quel villaggio era finito, il viaggio verso altri luoghi doveva continuare, questa era la sua missione di vita, arrivato al castello andò per primo a salutare Alep che ora aveva una stalla enorme solo per lui, poi andò a salutare Salvo, diventato capo delle guardie ed infine salì da Alessander. Quando giunse da lui Alessander parlò per primo: grazie amici miei, senza il vostro aiuto non sarebbe cambiato nulla in questo villaggio, la verità sarebbe sempre rimasta nascosta sotto metri di terra, quando incontrerete di nuovo quell’immagine nata dal nulla, ringraziatela per me, e ditegli che la forza dello spirito è più forte di qualsiasi altra cosa che esiste in questo mondo. Gigetto disse: addio, giovane amico, ogni tanto ricordati di guardare la pietra che ti ho donato, cerca di comprenderne le giuste indicazioni e vedrai che riuscirai a condurre il tuo popolo da saggio padrone . Cippiricià: addio, mio giovane principe, il nostro incontro è stato predisposto dal destino, ma l’esito era incerto, ora invece posso affermare con certezza che il bene ancora una volta ha distrutto il male.
Lasciarono il castello dirigendosi verso la porta che li accolse la prima volta e mentre la stavano attraversando sentirono la voce di un soldato che li chiamava, era quello che intervenne il giorno che arrivarono, si voltarono verso di lui per salutarlo e Cippiricià guardandolo gli disse: ciao soldato, ora non fuggo alla tua vista come facemmo l’altra volta, ora ti parlo perché tu non credesti alle parole di Salvo quando te lo disse. Gigetto a quelle parole fece un sorriso a pieni polmoni, e si dileguarono nel bosco senza mai più tornare in quel, ora felice, villaggio.